Passata la soglia dei trent’anni ho capito che l’autunno è divenuta la mia stagione. E ho realizzato quanto io sia cambiata nel giro di appena una decina d’anni. Sarà che l’autunno porta con sé dei colori magnifici, che posso cucinare i muffin senza sentirmi in colpa o che ho una buona scusa per sposare divano e copertina, la sensazione è un po’ quella di prepararsi ad un dolce letargo prima del Natale.

A volte non riesco a capacitarmi di quanto il nostro essere sia in perpetuo cambiamento. Fin da bambina ho sempre amato il sole e l’estate, odiando con tutto il cuore l’umido e freddo grigiore autunnale.
Estate significava poter passare qualche settimana al mare in compagnia dei nonni, giocando tra gli scogli con gli amici della spiaggia e mangiare il gelato a merenda. A quattordici anni era fare le “vasche” su e giù per il lungo mare la sera ed essere un po’ ragazzaccia bevendo i primi Bacardi Breezer.
Estate erano anche quelle meno ricorrenti ma decisamente speciali giornate in campagna ospite dei nonni paterni. Quando mi ritrovavo assieme ai cugini e bisognava inventare come passare il tempo.
Due ore al giorno venivano dedicate alla Play Station, principalmente giocando a giochi horror come Resident Evil o Silent Hill, al buio e facendosi paura a vicenda. A volte la sera si poteva guardare una videocassetta a scelta tra le poche che ci eravamo portati da Torino – tutti noi abbiamo imparato Jumanji a memoria.
Il resto della giornata era una tavola bianca da riempire con attività partorite dalle idee peggiori che le nostre menti di ragazzini annoiati potessero concepire. Si andava dai giri in bici di vari chilometri (sulle statali o sullo sterrato, tutto era valido, anche guadare i rigagnoli infangati), alla tentata caccia di rane nel Tanaro, fino alle occupazioni più estreme come costruirsi arco e frecce per tirare poi al grano turco, gare di velocità in sella a Grazielle pimpate e andare in cerca di scorpioni o tentare di catturare i calabroni.
Ora che ci ripenso, credo che in parte siamo stati miracolati per non esserci mai fatti veramente del male.
L’estate era anche uno di quei rarissimi periodi in cui i miei genitori staccavano dal lavoro ci portavano in vacanza sul Mar Rosso. Le nostre vacanze però non erano vita da villaggio turistico e miniclub, il più delle volte si prendeva un taxi sgangherato con almeno 350.000 km e si partiva all’avventura tra deserto, scoperta di spiagge poco conosciute e insediamenti beduini.
Il primo anno, quando io avevo 9 anni e mia sorella 5, partecipammo all’escursione sul Monte Sinai, ovvero una gita di 14 ore facendo trekking su un sentiero che parte dal Monastero di Santa Caterina e conduce sino alla cima del monte, organizzata rigorosamente di notte per arrivare alla vetta in tempo per vedere l’alba. Se me lo proponessero ora risponderei “manco morta”, all’epoca andammo come delle schegge.

Insomma è sempre stata l’estate la stagione del divertimento, della spensieratezza, dell’infanzia e in qualche modo è triste pensare che quel periodo sia finito, lasciarlo andare ed abbracciare l’idea che essere adulti è faticoso. Che il più delle volte è la vita che prende senza chiedere, che anche l’estate non ha più il fascino di prima perché fa troppo caldo, che bisogna comunque lavorare e le preoccupazioni non lasciano i pensieri soli per molto.
Quindi benvenuto autunno, stagione di cambiamenti fisici e metaforici. Stagione in cui ci si ritira un po’ ma si impara a conoscersi meglio, si prova a canalizzare meglio le energie e si lasciano cadere le foglie che non servono, possibilmente facendolo con stile e colorando il paesaggio intorno a noi.
Benvenuto freddo e benvenuta consapevolezza che possiamo imparare a scaldarci, che non serve stare sotto un’altra ala per trovare un riparo, ma che possiamo provare a costruirlo noi come meglio ci riesce, che la stagione perfetta non esiste, ma che il cambiamento è sinonimo di vita.




